Cass. Civ. Sez.Unite 23 Genaio 2013 n. 1521

La Suprema Corte a sezioni unite ha  ribadito il ruolo del Tribunale, in ordine al controllo della validità prognostica del piano concordatario ovvero del regolare andamento della procedura, presupposto indispensabile al fine della garanzia della corretta formazione del consenso.

 “Considerato che la L. Fall., art. 162, impone al tribunale di dichiarare l’inammissibilità della proposta di concordato ove constatata l’assenza dei “presupposti di cui all’art. 160, commi 1 e 2, e art. 161”, in essi compresi quindi anche quelli concernenti la veridicità dei dati indicati e la fattibilità del piano, la questione che problematicamente viene sottoposta all’attenzione del Collegio riguarda l’individuazione del perimetro di intervento assegnato al giudice, al fine di stabilire se sia stato o meno soddisfatto il requisito di fattibilità del piano prescritto dal citato art. 161.

In proposito ritiene innanzitutto il Collegio che il piano, proprio perchè strumento realizzativo della proposta, non possa essere disgiunto dal contenuto di quest’ultima, atteso che la previsione prognostica favorevole del relativo esito è inevitabilmente. connessa, da un punto di vista causale, con la buona riuscita del primo. Posto dunque che la fattibilità del piano, come detto, deve essere attestata dal professionista, occorre stabilire se sia o meno configurabile un potere di sindacato del giudice al riguardo e, nell’ipotesi positiva, quali siano i termini del relativo esercizio.

A tale scopo va innanzitutto evidenziato come, seppur l’istituto del concordato preventivo sia caratterizzato da connotati di indiscussa natura negoziale (come d’altro canto si desume anche dal nome del procedimento), tuttavia nella relativa disciplina siano individuabili evidenti manifestazioni di riflessi pubblicistici, suggeriti dall’avvertita esigenza di tener conto anche degli interessi di soggetti ipoteticamente non aderenti alla proposta, ma comunque esposti agli effetti di una sua non condivisa approvazione, ed attuati mediante la fissazione di una serie di regole processuali inderogabili, finalizzate alla corretta formazione dell’accordo tra debitore e creditori, nonchè con il potenziamento dei margini di intervento del giudice in chiave di garanzia.

Quanto sinora esposto non consente tuttavia di offrire una tranquillante risposta ai due quesiti sopra formulati, essendo viceversa indispensabile stabilire, per la finalità indicata, se il prescritto requisito di fattibilità debba essere inteso in senso oggettivo ovvero debba essere ricavato dalla relativa attestazione resa da un professionista legittimato a farlo secondo la normativa vigente, alternativa la cui risoluzione presuppone la corretta configurazione della nozione di “fattibilità del piano di concordato”.

Al riguardo va innanzitutto premesso che la fattibilità non va confusa con la convenienza della proposta, vale a dire con il giudizio di merito certamente sottratto al Tribunale (salva l’ipotesi di cui alla L. Fall., art. 180, comma 4, come modificato dal D.L. n. 83 del 2012), così come analogamente non può essere identificata con una astratta verifica in ordine agli elementi dell’attivo e del passivo, anche se in qualche misura da questi possa dipendere.

E’ invece più propriamente da ritenere che la fattibilità si traduca in una prognosi circa la possibilità di realizzazione della proposta nei termini prospettati, il che implica una ulteriore distinzione, nell’ambito del generale concetto di fattibilità, fra la fattibilità giuridica e quella economica. Una prima conclusione che si può trarre da questa premessa può dunque essere individuata nel fatto che certamente il controllo del giudice non è di secondo grado, destinato cioè a realizzarsi soltanto sulla completezza e congruità logica dell’attestato del professionista.

Al detto attestato deve infatti essere attribuita la funzione di fornire dati, informazioni e valutazioni sulla base di riscontri effettuati dall’interno, elementi tutti che sarebbero altrimenti acquisibili esclusivamente soltanto tramite un consulente tecnico nominato dal giudice.

Ne consegue dunque che, pur non essendo un consulente del giudice – come si desume dal fatto che è il debitore a nominarlo -, il professionista attestatore ha le caratteristiche di indipendenza (ulteriormente indirettamente rafforzate dalle sanzioni penali previste dalla L. Fall., art. 236 bis, introdotto con il D.L. n. 83 del 2012) e professionalità idonee a garantire una corretta attuazione del dettato normativo.

Deve dunque – ritenersi che egli svolga funzioni assimilabili a quelle di un ausiliario del giudice, come pure si desume dal significativo ruolo rivestito in tema di finanziamento e di continuità aziendale (L. Fall., art. 182 quinquies, di cui al D.L. n. 83 del 2012), circostanza questa che esclude che destinatari naturali della funzione attestatrice siano soltanto i creditori e viceversa comporta che il giudicante ben possa discostarsi dal relativo giudizio, così come potrebbe fare a fronte di non condivise valutazionì di un suo ausiliario.

Orbene se non è dubbio che spetti al giudice verificare la fattibilità giuridica del concordato e quindi esprimere un giudizio negativo in ordine all’ammissibilità quando modalità attuative risultino incompatibili con norme inderogabili, profili di incertezza viceversa si pongono, laddove entrino in discussione gli aspetti relativi alla fattibilità economica.

Questa è infatti legata ad un giudizio prognostico, che fisiologicamente presenta margini di opinabilità ed implica possibilità di errore, che a sua volta si traduce in un fattore rischio per gli interessati.

E’ pertanto ragionevole, in coerenza con l’impianto generale dell’istituto, che di tale rischio si facciano esclusivo carico i creditori, una volta che vi sia stata corretta informazione sul punto. Peraltro se, come detto, al giudice non è inibito prestare attenzione alla fattibilità del piano, la questione che ne deriva è individuabile nello stabilire se, una volta verificatane l’assoluta impossibilità di realizzazione, egli sia legittimato o meno ad assumere di sua iniziativa una decisione contrastante con le indicazioni ed il giudizio del professionista attestatore.

Ritiene il Collegio che una corretta configurazione dei margini di intervento del giudice sotto il profilo or ora evidenziato presuppone la preventiva individuazione della causa concreta del procedimento di concordato sottoposto al suo esame, il che equivale a dire l’accertamento delle modalità attraverso le quali, per effetto ed in attuazione della proposta del debitore, le parti dovrebbero in via ipotetica realizzare la composizione dei rispettivi interessi.

In proposito non sembra inutile premettere, in via generale, che, come si desume dalle recenti modifiche della disciplina del concordato (fra le quali particolarmente significative quelle concernenti la libertà delle forme, il ridimensionamento del ruolo del giudice, l’accentuazione degli aspetti negoziali) e dalle connesse relazioni di accompagnamento, un primo obiettivo di fondo perseguito dal legislatore è univocamente e incontestabilmente individuabile nel superamento dello stato di crisi dell’imprenditore, obiettivo ritenuto meritevole di tutela sotto il duplice aspetto dell’interpretazione della crisi come uno dei possibili e fisiologici esiti della sua attività e della ravvisata opportunità di privilegiare soluzioni di composizione idonee a favorire, per quanto possibile, la conservazione dei valori aziendali, altrimenti destinati ad un inevitabile quanto inutile depauperamento.

Ne consegue dunque che la proposta di concordato deve necessariamente avere ad oggetto la regolazione della crisi, la quale a sua volta può assumere concretezza soltanto attraverso le indicazioni delle modalità di soddisfacimento dei crediti (in esse comprese quindi le relative percentuali ed i tempi di adempimento), rispetto alla quale la relativa valutazione (sotto i diversi aspetti della verosimiglianza dell’esito e della sua convenienza) è rimesso al giudizio dei creditori, in quanto diretti interessati.

La detta valutazione, tuttavìa, perchè venga espressa correttamente e determini il giusto esito della instaurata procedura concordatizia, presuppone che i creditori ricevano una puntuale informazione circa i dati, le verifiche interne e le connesse valutazioni, incombenti che assumono un ruolo centrale nello svolgimento della procedura in questione ed al cui soddisfacimento sono per l’appunto deputati a provvedere dapprima il professionista attestatore (rispetto al quale il citato D.L. n. 83, oltre a sottolinearne la necessaria indipendenza, ha introdotto pesanti sanzioni nel caso di falsità nelle attestazioni o nelle relazioni), in funzione dell’ammissibilità al concordato (L. Fall., art. 161), e quindi il commissario giudiziale prima dell’adunanza per il voto (L. Fall., art. 172).

Se il legislatore ha dunque incontestabilmente valorizzato l’elemento negoziale sotto l’aspetto sopra indicato nella procedura oggetto di esame, è pur vero che, come precedentemente già evidenziato, non si è curato di cancellare tutti gli aspetti pubblicistici che caratterizzavano la procedura prima della riforma, dato questo che non può essere interpretato come casuale, e ciò sotto il duplice profilo del numero di interventi effettuati (circostanza questa che, ove si fosse voluto, avrebbe reso agevole una più radicale riforma) e della significativa rilevanza degli interessi sostanziali ancora ritenuti meritevoli di tutela.

Si intende cioè fare in particolare riferimento alle forti limitazioni e compressioni che il creditore finisce per subire per effetto del procedimento di concordato, vedendo vanificato il suo diritto di azione pur costituzionalmente garantito e assistendo alla formalizzazione di una limitazione del suo credito, per effetto di maggioranze ipoteticamente non condivise formatesi sul punto.

Una limitazione così significativa, dunque, determinata da un’avvertita esigenza di bilanciamento con le sopra richiamate esigenze di agevolazione dell’imprenditore nell’uscire dallo stato di crisi, può trovare concreta giustificazione – al di là della condivisione o meno nel merito dell’opzione effettuata – soltanto ove ricorrano le due seguenti condizioni: a) che lo svolgimento del procedimento avvenga nel rispetto delle indicazioni del legislatore, vale a dire consentendo ai creditori, dapprima, di votare avendo conoscenza (o avendo avuto modo di conoscere) di tutti i dati a tal fine necessari e, quindi, di esprimere le eventuali riserve nel giudizio di omologazione; b) che la conseguente definizione si realizzi con il raggiungimento della duplice finalità perseguita con l’instaurazione della detta procedura, consistenti nel superamento della situazione di crisi dell’imprenditore (che comunque in tal modo così definisce la sua parentesi commerciale negativa), da una parte, e nel riconoscimento in favore dei creditori di una sia pur minimale consistenza del credito da essi vantato in tempi di realizzazione ragionevolmente contenuti (significativo in tal senso la L. Fall., art. 181, che stabilisce un breve termine di definizione suscettibile di una sola proroga), dall’altra.

Il compito di tutela della legalità del procedimento è all’evidenza demandato al giudice per il ruolo istituzionale svolto, oltre che per i diversi espliciti richiami in tal senso risultanti dal vigente testo normativo (segnatamente L. Fall., art. 162, comma 2, art. 173, art. 180, comma 3).

Ne consegue, venendo al concreto, che il margine di sindacato del giudice sulla fattibilità del piano va stabilito, in via generale, in ragione del contenuto della proposta e quindi della identificazione della causa concreta del procedimento nel senso sopra richiamato.

Peraltro, poichè come detto il legislatore non ha imposto aprioristiche predeterminazioni in proposito, ne discende che non è possibile stabilire con una previsione generale ed astratta i margini di intervento del giudice in ordine alla fattibilità del concordato, dovendosi a tal fine tener conto delle concrete modalità proposte dal debitore per la composizione della propria esposizione debitoria.

Avendo poi più specifico riguardo al concordato con cessione dei beni, che interessa in questa sede, il controllo va effettuato sia verificando l’idoneità della documentazione prodotta (per la sua completezza e regolarità) a corrispondere alla funzione che le è propria, consistente nel fornire elementi di giudizio ai creditori (in tal senso la consolidata giurisprudenza di questa Corte, e segnatamente C. 11/3586, C. 10/21860, C. 09/22927), sia accertando la fattibilità giuridica della proposta (si pensi, a titolo esemplificativo, alla cessione di beni altrui), sia infine valutando l’effettiva idoneità di quest’ultima ad assicurare il soddisfacimento della causa della procedura come sopra delineata.

Rientra dunque certamente, nell’ambito del detto controllo, una delibazione in ordine alla correttezza delle argomentazioni svolte e delle motivazioni addotte dal professionista a sostegno del formulato giudizio di fattibilità del piano, così come analogamente deve dirsi per quanto concerne la coerenza complessiva delle conclusioni finali prospettate (si pensi ad esempio ad un giudizio di fattibilità ancorato ad un complesso di dati, la cui sommatoria deponesse viceversa in favore di conclusioni di segno opposto) ovvero l’impossibilità giuridica di dare esecuzione (sia pure parziale) alla proposta di concordato (si pensi ancora, ad esempio, alla programmata cessione di beni di proprietà altrui), ovvero la rilevazione del dato, se emergente “prima facie”, da cui poter desumere l’inidoneità della proposta a soddisfare in qualche misura i diversi crediti rappresentati, nel rispetto dei termini di adempimento previsti.

non rientra nell’ambito del controllo sul giudizio di fattibilità esercitabile dal giudice un sindacato sull’aspetto pratico – economico della proposta, e quindi sulla correttezza della indicazione della misura di soddisfacimento percentuale offerta dal debitore ai creditori.

La causa della procedura di concordato sopra richiamata esclude infatti che l’indicazione di una percentuale di soddisfacimento dei creditori da parte del debitore possa in qualche modo incidere sull’ammissione del concordato e d’altro canto, come questa Corte ha pure avuto modo di precisare con recente decisione, quando si tratti di proposta concordatizia con cessione dei beni la percentuale di pagamento eventualmente prospettata non è vincolante, non essendo prescritta da alcuna disposizione la relativa allegazione ed essendo al contrario sufficiente “l’impegno a mettere a disposizione dei creditori i beni dell’imprenditore liberi da vincoli ignoti che ne impediscano la liquidazione o ne alterino apprezzabilmente il valore”, salva l’assunzione di una specifica obbligazione in tal senso (C. 11/13817).

D’altro canto, a voler ragionare diversamente (e cioè a ritenere sindacabile dal giudice la percentuale di soddisfacimento del credito indicata) si verrebbe a determinare una sottrazione ai creditori della valutazione circa la fattibilità della proposta di concordato, e ciò in contrasto con l’intenzione del legislatore, oltre che con il contenuto delle modifiche dallo stesso apportate.

Deve dunque concludersi, su questo punto, che i destinatari della proposta di concordato sono i creditori; che ad essi soltanto, pertanto, spetta formulare un giudizio in ordine alla convenienza economica della soluzione prospettata, che a sua volta presuppone una valutazione prognostica in ordine alla fattibilità del piano; che conseguentemente a quest’ultima valutazione resta del tutto estraneo il giudice, nelle varie fasi in cui è potenzialmente chiamato ad intervenire (L. Fall., artt. 162, 173 e 180).

Tale conclusione, per vero, era stata già rappresentata in precedenti decisioni di questa Corte (segnatamente C. 11/3586, C. 10/21860, C. 09/22927), rispetto alle quali erano stati talvolta sollevati rilievi critici sulla base di considerazioni di vario tenore, essenzialmente consistenti: nell’obbligo di verifica, da parte del giudice, in ordine alla completezza ed alla regolarità della documentazione ai fini dell’ammissione alla procedura di concordato (L. Fall., art. 163); nella possibilità, per il tribunale, di concedere al debitore un termine per integrazioni del piano e produzione di nuovi documenti, potere sintomatico dell’assegnazione di un ruolo potenzialmente critico e al contempo propulsivo attribuito al riguardo; nella incongruenza di una disciplina per la quale si autorizzerebbe la prosecuzione di una procedura pur a fronte di un prevedibile esito negativo, e ciò in contrasto con un elementare principio di economicità; nella inadeguatezza di un modulo procedimentale, che da una parte richiede la presenza di un giudice in funzione di controllo e dall’altra ne limiterebbe significativamente, fino ad annullarlo, l’effettivo potere di intervento; nella sottovalutazione del dato che il giudice sarebbe comunque “peritus peritorum”, sicchè sarebbe irragionevole precludergli una possibilità di sindacato in ordine alle stime effettuate dal professionista di cui alla L. Fall., art. 161.

15.1 – Ad avviso del Collegio i detti rilievi tuttavia, pur evidenziando aspetti critici dell’attuale disciplinà, non colgono nel segno.

Ed infatti non è innanzitutto condivisibile la premessa che implicitamente presuppone la formulazione dei detti rilievi, premessa consistente nel sostanziale svuotamento della funzione istituzionalmente attribuita al giudice che si verrebbe a determinare, ove si ritenesse che questo fosse privato del potere di sindacato in ordine alla fattibilità del piano.

Si è invero già precedentemente precisato in proposito che la procedura di concordato preventivo ha una natura mista, essendo da una parte basata su una previsione di accordo fra le parti, raggiungibile attraverso la prospettazione di una proposta, ma trovando attuazione il detto accordo nell’ambito di una procedura che valga ad assicurare la puntuale indicazione dei dati da parte del debitore, la corretta manifestazione di volontà da parte dei creditori, l’assenza di atti di frode o comunque illecitamente posti in essere dall’imprenditore.

In questo quadro è evidentemente rimessa ai creditori la valutazione in ordine alla convenienza economica della proposta, mentre spetta al tribunale il compito di controllare la corretta proposizione ed il regolare andamento della procedura, presupposto indispensabile al fine della garanzia della corretta formazione del consenso.

Non è dunque certamente marginale il ruolo assegnato dal legislatore al tribunale ove si consideri che, pur nella valorizzazione dell’elemento negoziale che ha inciso in termini restrittivi e limitativi sui poteri precedentemente attribuiti all’organo giudiziario: l’efficacia del relativo accordo, una volta concluso, è comunque subordinata ad un intervento del giudice, cui spetta verificare “la regolarità della procedura e l’esito della votazione” (art. 180, comma 3); il tribunale è titolare di un potere di revoca dell’ammissione al concordato durante l’arco della procedura, ricorrendo le condizioni normativamente previste (L. Fall., art. 173); ai fini della dichiarazione di ammissibilità della proposta al tribunale è conferito al giudice il compito di esaminare criticamente la relazione del professionista che accompagna il piano indicato dall’imprenditore e la documentazione da questi prodotta, consentendogli anche di richiedere integrazioni di contenuto e documentali (L. Fall., art. 162).

Tuttavia lo sbilanciamento in favore dell’elemento negoziale del nuovo procedimento di concordato, rispetto a quello risultante dalla precedente normativa, determina necessariamente una diversa perimetrazione dei poteri di intervento del giudice che, deputato a garantire il rispetto della legalità nello svolgimento della procedura, deve certamente esercitare sulla relazione del professionista attestatore un controllo concernente la congruità e la logicità della motivazione, anche sotto il profilo del collegamento effettivo fra i dati riscontrati ed il conseguente giudizio.