Il discrimine tra le due fattispecie di danno, quello patito dai genitori per la perdita del frutto del proprio concepimento (feto) e quello conseguente alla perdita del neonato, deceduto a breve o brevissima distanza dalla nascita, presenta molti profili di carattere giuridico, etico e psicologico.
E’ bene innanzitutto comprendere, in termini di diritto, quale sia la differenza tra feto e neonato.
In diritto la nascita avviene con il primo respiro. In medicina legale la prova dell’avvenuta respirazione si consegue attraverso l’analisi del polmone, il quale conserva tracce dell’ossigeno inalato[1]. Il nascituro, che estratto dal grembo materno non ha respirato, si considera nato morto, quindi non neonato ma feto.
La nascita, in termini giuridici, avviene dunque allorquando si verifichino due condizioni: il distacco naturale (o indotto) dal corpo materno e la manifestazione di vita autonoma attraverso il respiro.
Può avvenire così che il nascituro, pur distaccandosi dal corpo materno, non dia segni di vita nonostante il tentativo di rianimazione, che tende proprio a provocare la respirazione autonoma. In questo caso, se non avrà respirato, neppure per poco tempo, si intenderà “nato morto”[2], come se fosse deceduto nel corpo materno, ancor prima del parto. La fattispecie è quella della “morte del feto”
Le conseguenze giuridiche dei due diversi casi, morte del feto e morte del neonato, sono di grande rilievo, sia in materia penale, si veda il reato di infanticidio, che sul piano civile, come in materia di successione. La capacità giuridica si acquisisce infatti solo con la nascita (art. 1 C.C.).
Anche in materia di responsabilità civile, e quindi sul piano risarcitorio, le due diverse fattispecie sono trattate differentemente.
Sotto il profilo del danno parentale non patrimoniale la giurisprudenza tende difatti a differenziare il caso in cui i genitori perdano il frutto del loro concepimento prima della nascita programmata, o successivamente alla nascita anche se a poca distanza di tempo dal parto. Si parla, in questi casi, di perdita dell’aspettativa del rapporto parentale nel caso di decesso del feto, di perdita del rapporto parentale quando a decedere sia il neonato.
Invero, a parere di chi scrive, quando il feto è prossimo alla nascita, tanto da avere una capacità di vita autonoma seppure dipendendo ancora dalla madre, si può parlare di “rapporto parentale in atto” e non solo “in potenza”, inteso quest’ultimo come mera aspettativa.
Il legame tra madre e figlio, man mano che questo cresce nel ventre materno, diviene progressivamente sempre più intenso e coinvolgente, tanto che la perdita del nascituro nell’imminenza o durante il parto, sotto il profilo del danno morale transeunte, deve essere considerato evento più grave della mera perdita del feto avvenuta nei primi tempi di gravidanza.
Quanto all’inquadramento giuridico della fattispecie risarcitoria del danno da perdita di aspettativa del rapporto parentale le norme di riferimento sono gli artt. 2, 29 e 30 Cost., le quali tutelano all’intangibilità degli affetti nella sfera familiare, la inviolabilità della libera e piena esplicazione delle attività realizzatrici della persona umana nell’ambito della formazione sociale familiare.
Il ristoro per la perita subita dai genitori per la morte del feto o del neonato inerisce gli aspetti connessi al danno morale (che riguarda le mere sofferenze psichiche derivanti dal lutto) e esistenziale (inteso quest’ultimo come danno dinamico relazionale).
Il danno da perdita del rapporto parentale, o da lesione dell’aspettativa di esso, si può descrivere in termini di forzoso mutamento del progetto di vita famigliare, di perdita della gioia della maternità/paternità, di vanificazione delle fatiche, dei rischi e delle rinunce insite nella gravidanza. Quando la sofferenza derivante dal lutto si consolida in un grave e permanente danno di natura psichica, la lesione assume anche la connotazione di danno biologico permanente.
In ordine alla quantificazione del danno non patrimoniale da colpa medica, nel caso di nascita di figlio morto, la giurisprudenza di legittimità (Cass. Civ.sez. III, n.12717/2015) ritiene che non sia possibile applicare le Tabelle di Milano, senza tener conto che esse sono preordinate alla liquidazione del danno da perdita del rapporto parentale, presupponendo la già avvenuta instaurazione di un legame affettivo tra genitori e figli.
Invero, chi scrive ritiene che se per il risarcimento per la morte di un figlio in giovanissima età si deve fare riferimento ai valori tabellari massimi, per il figlio non nato, ma prossimo alla nascita, si dovrebbero considerare valori sensibilmente inferiori ma non necessariamente scendere sotto i minimi. Appare ingiusto, infatti, trattare in modo significativamente differente il caso del genitore che abbia perso un figlio dopo una settimana di vita e quello del genitore che l’abbia perso una settimana prima della nascita.
Sempre in ordine alla quantificazione del danno, con riferimento al caso di morte del feto, non si può prescindere dalla verifica del momento dell’evento, ovvero se questo sia avvenuto nei primi mesi di gravidanza o in una fase più avanzata (Trib. Milano, sez. X civ., ord. 22/11/2016 n. 5829).
Ancora va osservato che la determinazione del danno deve tenere conto di altre circostanze riguardanti i genitori, ovvero la loro età (con riferimento alla futura possibile genitorialità) e l’eventuale presenza di altri figli.
Da ultimo chi scrive ritiene che il danno morale patito dalla madre, gestante del nascituro, sia da liquidarsi in misura maggiore di quello patito dal padre. Non è infatti revocabile in dubbio la circostanza che durante la gravidanza tra madre e figlio si stabilisce una relazione biologica e psicologica, intima e continuativa, che appartiene al solo vissuto materno; così che la drammatica interruzione della gravidanza comporta per la madre un danno psicologico e morale di intensità ancor maggiore di quella patita dal padre.
_____________________________________________________________________________________________________________________________
[1] “Il polmone che ha respirato conserva sempre tracce di ossigeno (Bianca 1997, pag.200). “La docimasia polmonare idrostatica e galenica dimostra che il polmone posto in un recipiente contenente acqua, se è avvenuta la respirazione galleggia, mentre se non vi è stata respirazione affonda (Scardulla 1983, 522)” Commentario al Cod. Civ. a cura di Paolo Cendom
[2] Va ancora rilevato che la respirazione deve compiersi in modo completo, non essendo sufficiente il respiro di un solo istante, ma dovendosi accertare da parte del medico legale se la respirazione abbia innescato ulteriori meccanismi organici vitali, quali “l’obliterazione delle vie sanguigne fetali”.