IL GIORNO DELLA MEMORIA

Dovremmo celebrare ogni giorno dell’anno un “giorno della memoria”; un giorno per ciascuna delle orrende vicende umane che non devono essere archiviate come meri fatti storici in polverose biblioteche o nei server di qualche facoltà universitaria.

Purtroppo viviamo in un paese ove non si leggono libri, in cui il ministero dell’istruzione ha pensato di eliminare, salvo poi riammetterlo, il tema di storia alla maturità. Eppure non occorre molta intelligenza, né elevata cultura, per sapere che i giovani non possono comprendere il significato della democrazia e il valore della libertà, se non conoscendo le fasi di maturazione del pensiero umano volto al raggiungimento di un’etica collettiva e aggregante. La  coscienza morale, individuale e collettiva,  si può formare solo apprendendo gli orrori della storia e la sanguinosa lotta che altri, prima di noi, hanno sostenuto per consentire alla nuove generazioni una vita migliore.

L’arte, la letteratura, la poesia svolgono un ruolo fondamentale in questa opera di formazione delle coscienze.

Innumerevoli ne sono gli esempi; il quadro di Picasso che raffigura gli effetti del bombardamento di Guernica da parte dell’aviazione tedesca e italiana in appoggio ai franchisti, rappresenta allora, come ora, un monito contro la guerra civile ed il fascismo; con lo stesso impatto emotivo, in versi, la poesia “Romance de la guardia civil  española” di Garcia Lorca.

Da non dimenticare gli eccidi della guerra serbo bosniaca ci aiutano invece i versi della poesia “Le lacrime delle madri di Srebrenica” di Abdulah Sidran.

Vorrei allora celebrare il giorno della memoria della Shoah, il più efferato genocidio della storia moderna con i versi scritti dai poeti del popolo ebraico.

E’ storicamente noto che nelle varie nazioni europee il livello culturale degli ebrei, tra la prima e la seconda guerra mondiale, era molto elevato (si consideri l’analfabetismo diffuso, soprattutto in Italia); non stupisce allora come essi abbiano cercato, durante le persecuzioni raziali, di porre in salvo dallo sterminio i loro intellettuali. Così avvenne, nel 1943, durante la resistenza ebraica del ghetto di Varsavia, quando i partigiani ebrei cercarono di far fuggire e nascondere i loro poeti.

In quel momento drammatico della storia moderna, unico per le sue dimensioni apocalittiche, gli ebrei del ghetto, assediati e affamati, in lotta per la loro sopravvivenza, tentarono di mettere in salvo Itzak Katzenelson, letterato, poeta e drammaturgo.

Ktzenelson non si salverà, come i suoi figli e la moglie, ma i suoi versi si; gli sono sopravvissuti, come per miracolo, in modo romanzesco.

Scriverà in prigionia, nel campo di concentramento di Vittel, il “Canto del popolo yiddish messo a morte“, poi, prima di essere trasportato in un altro campo, ove sarà ucciso pochi giorni dopo insieme a suo figlio (nella foto), seppellirà i suoi versi accartocciandoli in tre bottiglie; quindici canti di quindici strofe l’uno. Era il ’44. Verranno ritrovati subito dopo la guerra “vicino all’uscita, a destra, al sesto palo che ha una spaccatura in mezzo, ai piedi di un albero”, secondo le sue istruzioni.

Il Canto costituisce una delle tante testimonianze dell’orrore, rappresenta un monito doloroso, come il diario di Anna Frank; un lascito a quelli che verranno.          

Non meno rilevanti, per la storia e per l’arte, sono le poesie scritte dai bambini imprigionati nel lager di Terezin. Tra questi la bellissima poesia di una dodicenne: Eva Pichova’.

Una poesia colma di dolore, di immagini infernali che ricordano la pittura di Hieronymus Bosch, ma anche, negli ultimi versi, di irrinunciabile speranza: “vogliamo un mondo migliore”. Il mondo migliore che i giovani attendono, attendono ancora.  

Oggi il ghetto prova una paura diversa,
Stretta nella sua morsa, la Morte brandisce una falce di ghiaccio.
Un male malvagio sparge il terrore nella sua scia,
Le vittime della sua ombra piangono e si contorcono.

Oggi il battito di un cuore di padre narra del suo terrore
E le madri nascondono la testa tra le mani.
Adesso qui i bimbi rantolano e muoiono di tifo
Il loro sudario sconta un’amara tassa.

Il mio cuore batte ancora nel mio petto
Mentre gli amici partono per altri mondi.
Forse è meglio – chi può saperlo? –
Assistere a ciò oppure morire oggi?

No, no, mio Dio, voglio vivere!
Senza vedere dissolversi i nostri numeri.
Vogliamo avere un mondo migliore,
Vogliamo lavorare – non dobbiamo morire!

Eva Pichova’ …. dodici anni  (testo tratto dal sito dell’Unione Comunità Ebraiche Italiane)